ESSERE FRATELLI

Cosa vuol dire essere fratello o sorella? I fratelli sono “le radici orizzontali” del sistema familiare e sono presenti per quasi tutto l’arco del ciclo vitale di una persona. Secondo Minuchin (psichiatra, pediatra e psicoterapeuta) il sottosistema fratelli è il primo laboratorio sociale nel quale i bambini lavorano in continuazione per capire le distanze e l’accesso con i genitori.  Se, invece, in una famiglia è presente solo un bambino, il figlio unico andrà a cercare Il “laboratorio” attraverso il confronto tra pari. I fratelli imparano a negoziare, cooperare, competere e fanno esperienza rispetto a qual è il limite del conflitto perché non diventi patologico. Attraverso il gioco possono elaborare l’angoscia e trasformarla in creatività: dalla noia scaturisce l’aggressività. Poterla esprimere attraverso il gioco permette di eliminare quella quota di aggressività che può essere pericolosa.  

Il sottosistema fratelli emerge con la nascita del secondo figlio. La relazione fraterna è caratterizzata da due polarità opposte: da una parte il rapporto di collaborazione, solidarietà e sostegno reciproco, dall’altra vi sono l’opposizione, la competitività e la sfida che possono innescare la violenza, il rifiuto reciproco e l’odio.  Il sentimento caratteristico e centrale del sottosistema fratelli è la gelosia che inizia e si attiva ben prima della nascita del secondo figlio. In realtà la gelosia è nella testa dei genitori, rappresenta l’esperienza di gelosia che hanno vissuto e quanto da essa ne siano spaventati.

I genitori, se presenti e disponibili, non insegnano ai figli strategie specifiche e dirette per comportarsi “da fratelli”. Ci sono però diversi modi indiretti per influenzare questi rapporti. Per esempio, tutti i membri della famiglia sono toccati da ciò che Bowen (psichiatra e pioniere della terapia familiare) ha chiamato “influenza familiare multigenerazionale”. Tale eredità regola ed altera il modo in cui gli individui interagiscono fra loro e stabiliscono relazioni nella famiglia. Questo avviene anche per l’eredità fraterna: i bambini crescono sentendo parlare in maniera esplicita o indiretta delle esperienze dei genitori con i rispettivi fratelli o sorelle. La conseguenza più immediata diviene l’essere influenzati da queste modalità. Ci sono due vie opposte tra loro: ripetere l’esperienza dei genitori o comportarsi in maniera completamente diversa per evitare il ripetersi degli errori fatti o per non subire i loro stessi traumi. L’apprendimento di alcune situazioni, emozioni, legami, avviene con la lente di quella generazione lì, da fratelli.

L’intimità del sottosistema fratelli può essere paragonata a quella di una coppia. Nei momenti di difficoltà o di crisi familiari il legame fraterno può diventare una risorsa in quanto schieramento comune. Si parla di ipercoinvolgimento fraterno quando i fratelli sono costretti, da quello che accade, ad ipercoinvolgersi tra di loro. Ci si irrigidisce dentro il legame per fronteggiare i pericoli: “insieme ci salveremo”.  Avviene in assenza o per un calo di presenza delle figure adulte significative, è una risposta naturale difensiva ma reattiva che deriva dalla mancanza di figure genitoriali. Un’infanzia in cui i fratelli vivono una sorta di autogestione della vita emotiva ed affettiva. I fratelli in una situazione di “assenza dei genitori” cercano tra di loro identificazioni idealizzabili e forme di rispecchiamento interno, dove per identificazione si intende “mi identifico in un altro se metto delle parti di me nell’altro o prendo delle parti dell’altro e le metto in me”, mentre nel rispecchiamento guardo l’altro come se fosse il mio specchio. Soprattutto nelle coppie che si separano i fratelli creano delle alleanze che possono diventare ipercoinvolgimento. Nell’ipercoinvolgimento la lealtà tra fratelli diventa iperlealtà, cioè, “sono fedele e leale all’altro fino alla morte”.

L’iperlealtà avviene per diversi motivi:

  • Su mandato familiare/genitoriale: “il vostro legame dev’essere molto stretto”. Sono genitori che promuovono la fusione: “io e te siamo leali l’uno all’altro, non c’è spazio tra di noi”. La fusione tra fratelli, da adulti, impedisce di costruire una vita al di fuori e tutto viene visto come tradimento.
  • Attraverso la delega dei genitori ai figli di cura reciproca: “prendetevi cura di voi”.
  • Attraverso la spinta dei genitori a non avere legami se non quelli fraterni (non è possibile inserire un amico, un compagno di scuola).
  • Infine, dal fatto che “non posso permettermi di esprimere rabbia, tristezza verso il genitore e sono spinto a trovare risposte nel sottosistema fratelli”

La lealtà si distingue in lealtà univoca e reciproca. La prima si esprime quando “io sono totalmente leale a te, tu no”.  È più evidente, ed a senso unico. In questo caso un fratello prende la funzione di figlio genitoriale, si assume la responsabilità delle cure genitoriali, non ha niente in cambio, rimane rigido dentro la sua funzione e non c’è scambio affettivo. Il figlio genitoriale, generalmente una femmina, si assume responsabilità primarie riguardo ai fratelli e alle sorelle nell’infanzia e spesso anche nell’età adulta. La lealtà reciproca, invece, si trasforma in codice segreto. In questi sottosistemi non c’è spazio profondo e individuale, “io non posso salvarmi da solo”. Qualsiasi separazione della vita crea molto dolore.

Esistono due tipi di fratellanza. I fratelli ad alto accesso hanno meno differenza di età, sono dello stesso genere (femmina/femmina o maschio/maschio) ed hanno genitori uguali, cioè sono figli dello stesso matrimonio. Stabiliscono fin da subito un forte legame affettivo, condividono scuole e amici, sperimentano gli stessi genitori più o meno nello stesso momento del ciclo vitale, sviluppano una profonda lealtà, sviluppano un loro linguaggio, un codice che li distingue e li protegge. I fratelli a basso accesso hanno più differenza di età, hanno genitori diversi e sono di genere diverso (maschio/femmina). Quando la differenza d’età è elevata, i fratelli sperimentano vissuti diversi anche all’interno della famiglia stessa e si possono considerare “figli di genitori diversi” perché varia l’età dei genitori e di conseguenza il modo di essere genitori. I fratelli condividono poco, a partire dalle scuole, dagli amici, ed è come se fossero figli di due generazioni differenti. Il sottosistema fratelli è il primo sistema esperienziale dell’individuo: dentro quel sottosistema si prendono delle posizioni e delle funzioni. Quando queste sono rigide c’è il rischio di sviluppare una patologia, se sono flessibili c’è la possibilità di scambiarsi tali funzioni anche quando i bisogni mutano. Sono entrambi i genitori che designano le funzioni che, se rigide, si manterranno a lungo nel tempo.  Per esempio, il figlio bravo dovrà essere sempre bravo, il figlio disabile dovrà essere sempre disabile. Quanto nel sistema della generazione (genitori/figli) la designazione è importante e ha delle convenienze? Ogni funzione ha dei privilegi, degli effetti positivi su di sé. Perché non siano rigide ci vuole una spinta vitale al cambiamento. Il sottosistema fratelli può promuovere, tentare un grande cambiamento che è molto faticoso se i genitori non lo approvano.

Foto di Bessi da Pixabay 

MAMMA, PAPÀ: STO DIVENTANDO GRANDE!

L’adolescenza è quella fase della vita umana che caratterizza il passaggio dall’infanzia all’età adulta, durante il quale nella persona si verificano una serie di cambiamenti irreversibili, che riguardano il corpo, la mente, e i comportamenti intesi come rapporti e valori sociali. 

Possiamo definirla come un processo evolutivo in cui i ragazzi devono superare una serie di eventi critici, chiamati compiti di sviluppo, che creano uno stress sia interno che esterno. È una fase di passaggio e di crescita: da bambini si diventa adulti. L’adolescente vive in una situazione estremamente contraddittoria perché da una parte reclama indipendenza e autonomia dai genitori e dall’altra parte ne è dipendente sia emotivamente sia economicamente. 

Anche il contesto familiare è influenzato dai cambiamenti dell’adolescente: la famiglia deve fronteggiare il faticoso compito di trovare un nuovo equilibrio e rinegoziare le relazioni genitori/figli per venire incontro alle nuove esigenze del ragazzo. 

I genitori riconoscono che il loro bambino sta diventando grande, ma possono essere restii ad ammetterlo, possono provare preoccupazione di fronte alle richieste di autonomia e timore per la necessità di rimettere in asse un equilibrio che ha funzionato bene per molto tempo. Il compito del genitore è quello di essere sufficientemente flessibile da accogliere sia le richieste di protezione, che di autonomia del figlio, per aiutarlo nella ricerca della propria individualità senza farlo sentire solo. I coniugi si ritrovano a fare un bilancio di sé stessi come genitori e come marito e moglie. L’adolescenza del figlio rimanda ai genitori l’idea del tempo che sta passando e fa riaffiorare in loro i ricordi sbiaditi della propria adolescenza oramai lontana negli anni, anche accentuando le emozioni nei confronti dei propri genitori. Essi possono rischiare di sentirsi inutili o inadeguati di fronte al figlio che diventa indipendente. 

L’adolescente fa ben poco per agevolare l’armonia famigliare, è sempre alla ricerca del conflitto, mette in discussione idee e valori genitoriali. Questi contrasti permettono al ragazzo di conoscersi meglio, di confrontare le proprie idee e di definirsi rispetto al punto di vista altrui. Inoltre, attraverso il conflitto l’adolescente impara alcune abilità sociali quali la capacità di ascolto, comunicazione, negoziazione, che saranno indispensabili per la futura vita relazionale. 

Il ragazzo abbandona lentamente il concetto di sé costruito sull’opinione dei genitori per sostituirlo ad una considerazione di sé derivata dai giudizi dei coetanei, nella quale è di fondamentale importanza l’aspetto fisico, l’attrazione sessuale e l’intelligenza. L’adolescente può sentirsi valutato negativamente e ciò comporta inevitabilmente ansia, frustrazione o l’atteggiarsi in modo compensativo, nel tentativo di primeggiare in ambiti in cui si è considerati poco abili. I genitori possono essere tentati di diventare iperprotettivi, con il rischio che il figlio si opponga eccessivamente al mondo degli adulti. L’acquisizione di una propria identità è un processo che dura anni e si costruisce attraverso la sperimentazione e l’identificazione. La sperimentazione consente di provare a recitare una molteplicità di parti, immedesimarsi in ruoli differenti. Attraverso le sperimentazioni e le identificazioni l’adolescente si riconosce come separato dagli altri e, confrontandosi con l’immagine che gli altri gli rimandano, si confronta con le proprie abilità ed i propri limiti. 

La famiglia dell’adolescente è messa di fronte al compito di conciliare la spinta verso l’unione e alla stabilità del sistema familiare con l’altrettanto forte tendenza all’uscita e all’autonomia da parte del figlio. Il principale compito di sviluppo consiste nel realizzare il processo di separazione tra adolescente e genitori e costruire una propria identità separata (individuazione). 

Se genitori e figli falliscono in questo compito uno dei rischi maggiori è rappresentato dall’incapacità dell’adolescente di sviluppare un’identità adulta ben definita, a favore di un’identità «diffusa», caratterizzata da estrema confusione delle regole e dei modelli di identificazione avuti fino a quel momento della propria vita. Non ci si può separare se prima non si è appartenuti.

Se la famiglia ha raggiunto un buon livello di differenziazione al suo interno, per cui i diversi sottosistemi (es: sottosistema genitori, sottosistema fratelli) presentano confini chiari e flessibili, queste trasformazioni saranno affrontate senza particolari difficoltà e l’adolescente potrà assumere il proprio posto nella storia familiare. 

Nel caso in cui i confini della famiglia sono diffusi, e non vi è la giusta differenziazione fra i sottosistemi, il processo di svincolo potrà essere impedito dalle forti spinte centripete della famiglia. Nel caso in cui i confini sono rigidi, e non vi è condivisione e partecipazione emotiva tra i diversi membri della famiglia, l’adolescente potrà trovarsi senza alcun sostegno nei momenti di bisogno, sviluppare una bassa autostima e una forte insicurezza. 

Le famiglie caratterizzate da eccessiva rigidità e disimpegno affettivo o da caoticità ed eccessivo invischiamento, non permettono ai membri giovani di sperimentare sia l’appartenenza al sistema familiare che l’indipendenza da esso, dando origine a forme di disagio e insoddisfazione. 

Fonte: Malagoli Togliatti M., Lubrano Lavadera A., (2002). Dinamiche relazionali e ciclo di vita della famiglia

Foto di Luisella Planeta Leoni da Pixabay 

IO, TE E LUI (IL CENTRO DEL NOSTRO MONDO)

Ci siamo conosciuti, ci siamo amati e abbiamo deciso di sposarci. E ora? La realizzazione della coppia, ma anche personale può passare attraverso la progettualità di diventare genitore e quindi attraverso la scelta consapevole di avere un figlio. Soprattutto ai giorni nostri quando l’utilizzo di metodi contraccettivi permette di decidere responsabilmente quando può avvenire questo passaggio.

L’arrivo del primo figlio trasforma la coppia in una famiglia a tutti gli effetti. Ma quali sono le motivazioni, spesso inconsce, che spingono i due a desiderare un figlio? Il bambino sembra rappresentare un prolungamento del sé individuale dei genitori e della relazione affettiva della coppia.

Può succedere, però, di desiderarlo per riempire un vuoto personale, magari quando la donna non è soddisfatta della relazione con il proprio marito. Questo è il caso della coppia fusionale nella quale i coniugi si aspettano una totale e reciproca condivisione spontanea da parte dell’altro nella relazione, senza accogliere ed accettare le differenze dell’altro che lo rendono una persona a sé stante. In questo caso il figlio rappresenta una rottura della relazione di coppia per permettere una nuova relazione fusionale tra il genitore e il figlio con il conseguente allontanamento dell’altro coniuge.

Nei matrimoni combinati, invece, (e questo è il caso delle coppie rigide-disimpegnate) il figlio è frutto di stereotipi sociali e quindi non può trovare uno spazio di intimità nella relazione perché non è frutto di un reale senso di generatività.

La nascita di un figlio introduce un nuovo ruolo e legame: quello genitoriale che è per sempre! La coppia passa dall’essere solo coppia coniugale al nuovo ruolo di essere coppia genitoriale. Se il matrimonio è causato da una gravidanza può essere più difficile raggiungere un equilibrio perché è stata «saltata» la fase della formazione dell’identità di coppia. Ciò significa che si troveranno a dover affrontare contemporaneamente due eventi critici: il matrimonio e la nascita del figlio. Non per questo queste coppie sono condannate ad una rottura, dovranno solamente affrontare due compiti di sviluppo contemporaneamente e potrebbe non essere semplice.

L’ingresso di un nuovo membro nella coppia costituisce l’evento tipico normativo di questa fase che segna il passaggio dalla diade coniugale alla triade familiare. Ad ogni evento critico della storia di una famiglia sono associati dei compiti di sviluppo: in questo caso di deve far fronte ad una rinegoziazione dei ruoli e delle posizioni nei confronti della propria famiglia d’origine. Infatti, la nascita di un bambino provoca un maggior coinvolgimento delle famiglie d’origine e i neogenitori «salgono» di una generazione.

Le tipiche difficoltà che si manifestano quando i genitori non riescono a compiere questo passaggio si presentano attraverso i conflitti sulle regole, sugli impegni e sulle responsabilità genitoriali e attraverso l’incapacità di esercitare l’autorità e porre regole e la scarsa definizione dei confini generazionali.

Un altro compito di sviluppo è quello di ridefinire la relazione coniugale. Accanto all’effetto gratificante di sentirsi uniti da un compito comune che aumenta la coesione familiare, il risvolto della medaglia comprende l’aumento di tensioni e conflitti, inoltre la donna può attraversare un momento depressione nei mesi successivi al parto. È necessario che la coppia crei dei confini chiari tra quella che è la relazione di coppia e quella che sarà la relazione genitoriale.

Infine, ricordiamo che uno dei compiti di sviluppo riguarda la costruzione di ruoli e funzioni genitoriali: i genitori devono arrivare a negoziare il tipo di atteggiamento educativo che si avrà con il figlio. Ci vuole una coerenza educativa, perché un atteggiamento educativo non condiviso crea nel bambino la convinzione che le regole non hanno valore e possono essere trasgredite e scredita l’immagine del genitore stesso in quanto autorità.

I neogenitori cambiano il modo di relazionarsi con le famiglie di origine per la diversa rappresentazione che, a livello individuale, familiare e sociale, deriva loro dall’assunzione di un ruolo adulto (quello genitoriale). Il compito della generazione più anziana è quello di sostenere, anche con le opportune distanze i propri figli nel ruolo dei genitori assumendo la nuova identità di nonni ma cercando di non invadere il campo. Non bisogna però creare rapporti troppo distanti o al contrario troppo invischiati.

È importante che i nuovi genitori abbiano completato il processo di individuazione dalla propria famiglia regolando le distanze altrimenti si corre il rischio di trovarci in situazioni poco funzionali. Per esempio, riguardo all’educazione del figlio ci potranno essere invasioni di campo da parte di madri, suocere o parenti e allo stesso modo i genitori anziani possono sentirsi in dovere di aiutare i figli nell’educazione della prole o al contrario sentirsi esclusi.

Concludendo possiamo dire che è tutto un gioco di equilibrio tra conflitti relazionali tra genitori e figli e regolazione delle distanze.

Fonte: Malagoli Togliatti M., Lubrano Lavadera A., (2002). Dinamiche relazionali e ciclo di vita della famiglia.

Foto: Foto di Stephanie Pratt da Pixabay 

TUTTO HA INIZIO DA ME E TE. COME SI FORMA UNA COPPIA? E COME FA A DURARE NEL TEMPO?

È con la formazione della coppia che comincia l’avvicendamento delle fasi che compongono il ciclo di vita della famiglia.

Le relazioni sono una delle esperienze più gratificanti e appaganti cui possiamo aspirare noi esseri umani. Il processo di formazione della coppia inizia nel momento in cui due persone si scelgono, si innamorano e danno vita ai rituali tipici del corteggiamento.

Facendo riferimento alle teorie familiari, la coppia così come i sistemi familiari è soggetta a continue modificazioni e rinegoziazioni nel corso del tempo. Si devono affrontare situazioni nuove che mettono in crisi le vecchie modalità di funzionamento. Possiamo individuare tre momenti diversi: la scelta del partner; l’innamoramento; il matrimonio. 

La scelta del partner è intrinsecamente collegata con la storia individuale e familiare di ciascun uomo o donna, in quanto il nuovo partner solitamente viene scelto per somiglianza (scelta complementare) o differenza (scelta per contrasto) con il genitore di sesso opposto. 

Spesso si scelgono dei partner con i quali si tenta di elaborare precedenti conflitti irrisolti. Questi conflitti normalmente hanno a che fare con dei processi di negazione o di scissione (quindi di separazione/divisione) di alcuni aspetti della propria personalità che sono rifiutati perché si vedono come inaccettabili. Quando queste parti del sé inammissibili vengono viste in altri individui (in questo caso il partner) riusciamo a provare un’ambivalenza verso di esse. Nel partner vengono percepite come attraenti e il rapporto con chi le possiede diventa un mezzo per riavere queste parti perse della propria personalità.  In sintesi, l’innamoramento, che è il principale motore di formazione della coppia, è il momento in cui uno vede nell’altro quelle polarità opposte di sé che non riesce a vedere e tollerare in sé stesso: è un processo attraverso il quale si possono amare delle cose di noi stessi (attraverso l’altro) che non riusciamo a riconoscerci perché incompatibili con l’immagine che ci siamo strutturati nel tempo.


Ma l’innamoramento, che è il processo che permette la nascita della coppia, è anche rappresentato da meccanismi di idealizzazione totale di sé e dell’altro. Ciascun partner offre inconsciamente all’altro, ma anche a sé stesso, un’apparenza ideale di sé; il partner sarà più o meno attratto da questa immagine, nella misura in cui questa corrisponde alla soluzione di antichi bisogni profondi. Ci innamoriamo sempre dell’immagine che l’altro ci rimanda di noi, e dell’immagine che a lui rimandiamo. 


Il processo di formazione di identità di coppia è strettamente legato a quello individuale di costruzione di una propria identità e di svincolo dalla famiglia di origine.
Soltanto se sono stati compiuti questi movimenti di uscita e differenziazione del giovane adulto dalla famiglia di origine, il legame che unisce la coppia può evolvere dall’innamoramento (tu sei perfetto per me, sei tutto quello che ho potuto desiderare, realizzerai tutti i miei desideri) e passare all’amore (ti accetto per quello che sei, non per come ti vorrei) e a un rapporto fondato sulla condivisione e sull’empatia e che, allo stesso tempo, consenta l’espressione della propria individualità.

I due innamorati in questa fase sottoscrivono un primo contratto che assomiglia ad un iceberg: la parte visibile, fuori dall’acqua, che ha funzione contenitiva e di unione, è costituita da norme espresse e accordi consapevoli; la parte sommersa è quella composta da vincoli non consapevoli di natura affettivo-emotiva. 

Le favole che spesso abbiamo sentito da bambini ci raccontano la celebrazione della felicità di una coppia nascente, la principessa che finalmente sposa il suo principe azzurro dopo mille peripezie. Vediamo quindi una coppia nella sua fase iniziale e una coppia nella sua fase finale. E nel mezzo che succede? 

Il viaggio che va dalla coppia dei neo-innamorati alla coppia d’amore matura è lungo, pieno di sfide e frustrazioni. Durante questo viaggio vi sono momenti, o interi periodi, nei quali le difficoltà non mancano e sono soventemente accompagnate da emozioni negative.

Bowen ci racconta di un contratto fraudolento, in cui ognuno dei partner comprende i bisogni profondi dell’altro e opera come se proprio lui possa essere quello che li soddisferà, pur essendo realisticamente impossibile sia per l’uno che per l’altro. La parte immersa del primo contratto è, dunque, caratterizzata dall’illusione: ciascun partner vede nell’altro la realizzazione di tutti i propri bisogni e desideri consci e soprattutto inconsci. 

Per la coppia sana sarà possibile un processo di rinegoziazione dell’accordo iniziale; è necessario arrivare ad accettare l’altro nella sua realtà, il partner deve essere visto come un individuo con delle caratteristiche e delle esigenze proprie (secondo contratto funzionale).

Se il contratto potrà essere modificato, allora si realizzerà il passaggio dall’illusione alla disillusione, ovvero il passaggio da una situazione in cui l’altro è percepito come proiezione dei propri bisogni, alla situazione in cui l’altro è percepito come persona autonoma. 

L’ eventualità per una coppia di raggiungere la fase della disillusione si basa sulla qualità dei vissuti infantili di ciascun partner e sulle modalità con cui è avvenuto lo svincolo rispetto alle famiglie di origine. 

Veniamo dunque al matrimonio, differente dalla convivenza, in quanto non ipotizza a livello simbolico, lo stesso impegno reciproco dei partner. A livello simbolico, il rituale della cerimonia nuziale costituisce un’importante linea di demarcazione tra le fasi di vita. L’atto del matrimonio non indica di per sé che la coppia sia pronta ad assolvere i compiti che è chiamata ad affrontare. 

I compiti di sviluppo che la neocoppia si trova ad affrontare in questa fase si svolgono su due assi: quello orizzontale (lealtà verso la coppia stessa come coniuge uno nei confronti dell’altro) e quello verticale (lealtà verso la propria famiglia d’origine come figlio nei confronti dei propri genitori). La nuova coppia deve riuscire a raggiungere un equilibrio tra queste due lealtà. 

Molti matrimoni o unioni di coppia falliscono già nel primo e secondo anno di vita proprio perché i due partner non riescono a superare gli adattamenti iniziali e i primi riaggiustamenti. Uno dei cambiamenti più significativi che una coppia deve saper fronteggiare riguarda il distanziarsi dal passato: ognuno porta dentro di sé la propria famiglia di origine e quindi tende ad interpretare il rapporto di coppia alla luce di quelle che sono state le sue esperienze infantili. Ci scegliamo un partner utile a definire rapporti con la nostra famiglia di origine. Abbiamo così due possibilità̀: 

1) Il partner ci permette di ripetere o proseguire un’esperienza se questa è stata soddisfacente. 

2) Il partner ci fa vivere un’esperienza compensatoria e/o di risarcimento se questa è stata insoddisfacente 

Nell’arco della vita una coppia deve riassestarsi varie volte. Ciò significa che deve essere pronta al cambiamento e possedere una buona flessibilità. Voler rimanere fermi in uno stadio particolare della propria storia, senza accettare le naturali trasformazioni che sopravvengono, può cristallizzare il rapporto, renderlo sterile, segnarne la fine. 

Manuela Cosenza

Fonte: Malagoli Togliatti M., Lubrano Lavadera A., (2002). Dinamiche relazionali e ciclo di vita della famiglia. Scabini E. (a cura di), (1985). L’organizzazione famiglia tra crisi e sviluppo.

Foto: Sfondo foto creata da creativeart – it.freepik.com

DELIRIO, UNA RARA INFIAMMAZIONE DEL CERVELLO E ICTUS SEMBRANO COLLEGATI AL COVID-19

Le complicanze neurologiche del Covid-19 possono includere delirio, infiammazione cerebrale, ictus e danni ai fasci nervosi, rivela un nuovo studio condotto da UCL e UCLH.

Pubblicato sulla rivista Brain, il team di ricerca ha identificato una condizione infiammatoria rara e talvolta fatale, nota come ADEM, che sembra aumentare in prevalenza a causa della pandemia.

Alcuni pazienti nello studio non hanno manifestato sintomi respiratori gravi e il disturbo neurologico è stato la prima e principale avvisaglia di Covid-19.

Lo studio fornisce un resoconto dettagliato dei sintomi neurologici di 43 persone (di età compresa tra 16 e 85 anni) trattate presso il National Hospital for Neurology and Neurosurgery, UCLH, che avevano confermato o sospettato Covid-19.

I ricercatori hanno identificato 10 casi di encefalopatie transitorie (disfunzione cerebrale temporanea) con delirio, che corrisponde ad altri studi che hanno trovato evidenze di delirio accompagnato ad agitazione. Ci sono stati anche 12 casi di infiammazione cerebrale, otto casi di ictus e altri otto con danni ai fasci nervosi, principalmente la sindrome di Guillain-Barré (che di solito si verifica dopo un’infezione respiratoria o gastrointestinale).

La maggior parte (nove casi su 12) di quelli con condizioni di infiammazione cerebrale sono stati diagnosticati con encefalomielite acuta disseminata (ADEM). L’ADEM è rara e di solito si manifesta nei bambini e può essere scatenata da infezioni virali: il team di Londra vede, normalmente, circa un paziente adulto con ADEM al mese, la frequenza è aumentata ad almeno un paziente a settimana durante il periodo di studio. Secondo i ricercatori è un aumento preoccupante.

Il virus che causa Covid-19, SARS-CoV-2, non è stato rilevato nel liquido cerebrospinale di nessuno dei pazienti testati, suggerendo che il virus non ha attaccato direttamente il cervello per causare la malattia neurologica. Sono necessarie ulteriori ricerche per identificare il motivo per cui i pazienti hanno sviluppato queste complicanze.

In alcuni pazienti, i ricercatori hanno identificato che l’infiammazione cerebrale era probabilmente causata da una risposta immunitaria alla malattia, suggerendo che alcune complicanze neurologiche di Covid-19 potrebbero derivare dalla risposta immunitaria piuttosto che dal virus stesso.

Gli autori sostengono che i medici debbano essere consapevoli dei possibili effetti neurologici, poiché la diagnosi precoce può migliorare gli esiti della malattia. Le persone che si stanno riprendendo dal virus dovrebbero consultare un professionista della salute se manifestano sintomi neurologici.

Fonti: https://neurosciencenews.com/coronavirus-inflammation-16622/ UCL

Ricerca originale: Open access
“The emerging spectrum of COVID-19 neurology: clinical, radiological and laboratory findings” by Michael Zandi et al. Brain

Foto di Pete Linforth da Pixabay 

GLI EFFETTI DELLA PSICOTERAPIA SULL’INTESTINO IRRITABILE

Ormai da tempo i medici sanno che le terapie psicologiche possono ridurre i sintomi della sindrome del colon irritabile (IBS da dall’inglese Irritable Bowel Syndrome) nel breve periodo. L’intestino irritabile è un disagio che affligge una buona parte della popolazione e incrementa il costo delle spese sanitarie di circa un miliardo di dollari annui.

Una nuova meta analisi pubblicata online il 22 dicembre 2005, dal giornale Clinical Gastroenterology and Hepatology, ha ora scoperto che anche gli effetti benefici della terapia psicologica sembrano durare da sei a 12 mesi dopo la conclusione della terapia. Lo studio ha analizzato i risultati di 41 studi clinici di diversi paesi contenenti oltre 2.200 pazienti.

L’autore Lin S. Walker, professore di pediatria al centro medico universitario di Vanderbilt, sostiene che il loro è il primo studio ad aver esaminato gli effetti a lungo termine e che i benefici moderati che conferiscono le terapie psicologiche nel breve termine continuano anche nel lungo termine. Questo è significativo perché la sindrome del colon irritabile e una condizione intermittente ma cronica per la quale non ci sono trattamenti medici particolarmente efficaci.

L’intestino irritabile è caratterizzato da dolore addominale cronico, disagio, gonfiore, diarrea o costipazione e classificato come un disturbo dell’asse “cervello-intestino”. Sebbene non sia nota alcuna cura, esistono trattamenti per alleviare i sintomi, inclusi adattamenti dietetici, farmaci e interventi psicologici.

“La medicina occidentale spesso concettualizza la mente come separata dal corpo, ma la sindrome del colon irritabile è un perfetto esempio di come i due sono collegati”, ha detto il primo autore Kelsey Laird, uno studente di dottorato nel programma di psicologia clinica di Vanderbilt. “I sintomi gastrointestinali possono aumentare lo stress e l’ansia, che possono aumentare la gravità dei sintomi. Questo è un circolo vizioso che il trattamento psicologico può aiutare a rompere. “

Gli studi che Laird ha analizzato includevano una serie di diversi tipi di terapie psicologiche, tra cui terapie cognitive, rilassamento e ipnosi. La sua analisi non ha riscontrato differenze significative nell’efficacia di diversi tipi di psicoterapia. Ha anche scoperto che la durata del trattamento (il numero di sessioni) non aveva importanza. Indipendentemente da tutto, le terapie psicologiche riducono i sintomi gastrointestinali negli adulti con IBS. Questi effetti sono rimasti significativi e di media grandezza dopo periodi di follow-up a breve e lungo termine.

Manuela Cosenza

Fonte: https://neurosciencenews.com/ibs-psychotherapy-health-3321/

Link all’articolo originale: https://www.cghjournal.org/article/S1542-3565(15)01706-1/fulltext

Immagine: Foto di silviarita da Pixabay

DIMMI COME SEI STATO AMATO E TI DIRÒ COME AMERAI

STILI DI ATTACCAMENTO E SCELTA DEL PARTNER

L’Attaccamento secondo Bowlby (1984) è un sistema comportamentale che ha lo scopo biologico di proteggere l’individuo (specialmente in età evolutiva) dai pericoli ambientali, mediante il mantenimento della vicinanza alle persone in grado di dare se necessari, sostegno, aiuto e conforto. Le figure di attaccamento sono quelle che in genere si identificano con i genitori.

Di formazione psicanalitica, medica e pediatra, l’autore elaborò questa teoria anche attraverso studi in campo etologico che lo portarono ad interpretare l’attaccamento come un rapporto privilegiato, biologicamente innato con la figura di accudimento primaria. Questo rapporto con la figura di accudimento primaria fornisce una “base sicura” da cui il bambino si allontana per esplorare con fiducia l’ambiente e a cui sa di potersi rivolgere quando incontra un ostacolo. La figura di attaccamento non fornisce soltanto cure strumentali come nutrizione, protezione dal freddo, ma anche sicurezza, comprensione, calore fisico. Il nutrimento non è infatti l’unico bisogno per la sopravvivenza, oltre all’ alimentazione risulta di vitale importanza la presenza di figure amorevoli che forniscano anche stimoli e affetto.

Per studiare i modelli di attaccamento che i bambini stabiliscono con il genitore durante il primo anno di vita, Mary Ainsworth ha ideato una procedura specifica, la Strange Situation:

 il suo scopo è quello di evidenziare il livello di angoscia alla separazione, se normale e adattiva o più grave e patologica. Il test consiste nel far sperimentare al bambino una situazione stressante nella quale si cerca di valutare come il bambino reagisce alla separazione dalla madre, se ha o meno fiducia nel suo ritorno. Attraverso le risposte dei bambini a delle sequenze di separazione e ricongiungimento, l’esperimento ha consentito di evidenziare diversi modelli di attaccamento.

  • Il primo modello di attaccamento è quello sicuro, tipico di quei bambini che utilizzano la madre come rifornimento emotivo per esplorare l’ambiente; anche se piangono quando si separano dalla madre, dimostrano di consolarsi poi facilmente e di continuare ad esplorare l’ambiente accogliendone il suo ritorno con gioia. Questo tipo di comportamento si presenta quando la madre è riuscita ad essere responsiva e ad offrire sicurezza.
  • Il secondo tipo di attaccamento e di tipo insicuro evitante. Riguarda bambini che non dimostrano particolari reazioni verso il caregiver né in presenza né in sua assenza, continuando ad esplorare e generalmente ad evitarlo nel corso della riunione. Tale modalità di comportamento pare trovare anche giustificazione con una madre che è stata rifiutante così che questi bambini hanno disattivato il comportamento di attaccamento ed iper-attivato quello di esplorazione.
  • Il terzo tipo di attaccamento è quello insicuro ambivalente caratteristico di quei bambini in difficoltà ad esplorare l’ambiente e anche a separarsi dalla mamma. Appaiono inconsolabili durante la separazione e quando la madre rientra la abbracciano intensamente ma con rabbia. Tale comportamento può essere causato da un caregiver che è stato ambivalente, talvolta rifiutante, talvolta invadente ed inclusivo. I bambini così, non riuscendo a fare previsioni circa il suo comportamento, imparano ad adottare un comportamento iper-vigilante.
  • Il quarto tipo di attaccamento (identificato negli ultimi anni) pare caratterizzare, invece, bambini molto spesso figli di soggetti affetti da patologie psichiatriche o vittime di abusi e gravi lutti. Questi bambini presentano un comportamento disorganizzato, incoerente, di vicinanza e lontananza insieme per l’inconciliabile bisogno di essere vicini alla madre, ricevere da lei protezione e, allo stesso tempo, con il bisogno di allontanarsi per paura, in quanto lei stessa percepita come fonte di minaccia.

Sulla base del tipo di esperienza vissuta e del tipo di attaccamento sviluppato, nel bambino si formeranno modelli operativi interni (MOI), che andranno a definire i comportamenti futuri e le relazioni significative.

Attraverso un’intervista semi strutturata, l’Adult Attachment Interview, si riescono a valutare gli effetti di tali esperienze sul funzionamento attuale dell’individuo adulto. La modalità con cui queste esperienze vengono narrate, più che la natura delle esperienze stesse, porta ad una classificazione generale dell’attuale stato mentale dell’adulto rispetto all’ attaccamento. Anche in questo caso si distinguono differenti modelli di attaccamento:

  • il modello sicuro/libero- autonomo è caratterizzato dalla capacità del soggetto di presentare un quadro coerente e ben integrato delle relazioni d’attaccamento, nonché dal riconoscimento dell’influenza delle prime relazioni sullo sviluppo della personalità
  • il modello distanziante è caratterizzato da distanziamento e svalutazione delle relazioni d’attaccamento oppure da idealizzazione dei genitori e mancanza di ricordi specifici relativi alle esperienze infantili con i caregiver
  • il modello preoccupato/invischiato indica un attuale coinvolgimento nelle passate relazioni di attaccamento di tipo passivo o conflittuale
  • il modello irrisolto/disorganizzato evidenzia la presenza di processi mentali disorganizzati relativamente a un lutto o a un evento traumatico

Quali sono gli effetti degli stili di attaccamento nelle relazioni di coppia?

L’adulto che ha sviluppato un attaccamento sicuro sarà portato a scegliere un amore sicuro, che confermi i suoi modelli operativi interni sicuri. Si indirizzerà verso persone che mostrano senza paura i propri sentimenti e con le quali è possibile condividere gli alti e bassi della vita rimanendo in un rapporto di fiducia reciproca e confermando la propria percezione di persona degna di essere amata e accudita nei momenti di bisogno. Per le persone sicure sono frequenti storie d’amore stabili e durature. 

Le persone che hanno sperimentato un attaccamento ansioso e ambivalente sono persone che, trascinate dal vortice della passione, pensano di aver trovato la persona giusta ad ogni “fiammata”. Vanno incontro a continue idealizzazioni e svalutazioni del partner scelto. Dal momento che il bambino ha sperimentato una relazione con una madre imprevedibile, sviluppa modelli di sé come di una persona da amare in maniera discontinua, ad intermittenza. Il soggetto insicuro-ambivalente rimane costantemente nella prima fase dell’innamoramento particolarmente caratterizzata da instabilità, emozioni forti, aspettative illusorie e insicurezza di un amore non consolidato ma in fase di esordio.

Gli adulti che hanno sviluppato un attaccamento evitante distanziante vanno incontro ad un amore freddo e distaccato. Se la madre è stata rifiutante non ha risposto con disponibilità, energia e calore alle richieste di aiuto e conforto, da adulti elaborano un modello di attaccamento definito “ansioso-evitante”. Non godendo di sicurezza affettiva sviluppano un modello mentale del sé come persona indegna di essere amata, che deve contare solo su di sé, e un modello mentale della madre come di persona cattiva dalla quale non aspettarsi nulla di buono. Il che comporta ad essere terrorizzati dalla possibilità di farsi coinvolgere emotivamente nelle. Di vitale importanza sarà il desiderio di conquista di autonomia e autosufficienza personale evitando di contare sugli altri considerati individui non affidabili. In questo modo possono difendersi da delusioni future e dal rischio di essere nuovamente rifiutati in una sorta di “congelamento emotivo”.

Nel caso di attaccamento disorganizzato siamo di fronte a persone che spesso incorrono in un amore patologico. Sono modelli di attaccamento sviluppati nel corso di storie di violenza, abuso e maltrattamento da parte di chi avrebbe, al contrario, dovuto accudire, curare, amare. I bambini che sperimentano questo tipo di legame elaborano durante l’infanzia rappresentazioni confuse e incoerenti della relazione. Nell’età adulta l’effetto di queste esperienze drammatiche si manifesta attraverso una distorsione nell’interpretazione degli eventi reali della vita, anneriti da una visione catastrofica. In amore dimostrano una incapacità a scegliere partner affidabili. Possono facilmente diventare partner e genitori maltrattanti e abusanti.

In conclusione, modelli di attaccamento disfunzionali non elaborati o corretti, possono portare a scelte sentimentali sbagliate o a relazioni disfunzionali e instabili o caratterizzate da violenza, sopraffazione o sottomissione. Si tratta di processi inconsci, a queste persone sfugge la consapevolezza dei propri processi mentali che influenzano lo sviluppo della personalità e di conseguenza le relazioni d’amore.

Manuela Cosenza

Bibliografia:

Bowlby, J. (1988). A Secure Base: Parent-child Attachment and Health Human Development. New York: Basic Books. Tr. It. Una base sicura. Milano: Raffaello 

Ainsworth, M.D.S., Blehar, M., Waters, E., e Wall, S. (1978). Patterns of attachment: assessed in the Strange Situation and at home. Hillsdale: Erlbaum.

Main, M. e Solomon, J. (1990). Procedures for identifying infants as disorganised/disoriented during the Ainsworth Strange Situation. In M. Greenberg, D. Cicchetti e E. M. Cummings (a cura di) Attachment in the pre-school-years (pp. 161-182). Chicago: university Press

Sitografia:

http://www.mediazionefamiliaremilano.it/psicologia/attaccamento.shtml

Foto di S. Hermann & F. Richter da Pixabay 

SINDROME DELLA CAPANNA O SEMPLICEMENTE RETICENZA AD ABBANDONARE UN’ABITUDINE?

Negli ultimi giorni si parla spesso di questa sindrome della capanna (o sindrome del prigioniero). Varie testate giornalistiche e vari blog segnalano tale problematica: per alcuni è una definizione coniata dalla psicologa Hernandez, mentre altri fanno riferimento ad autori americani che spiegano quanto succede durante i lunghi e rigidi inverni di alcune località in cui le persone sono costrette ad isolarsi in casa, facendo fatica poi a disabituarsi da questo isolamento e percependo stress nel ritornare alla vita sociale. 

Sindrome della capanna: di cosa si tratta realmente?

Durante questi mesi di confinamento a causa del coronavirus, ci sono stati due tipi di reazioni: chi ha subito il confinamento trovandosi in uno stato di forte stress e chi ha invece reagito in modo attivo, ritrovando piccoli piaceri, voglia di stare in famiglia e scoprendo passatempi e passioni. In questo caso la quarantena ha permesso alle persone di avere maggiore tempo per se stesse, i loro cari e i loro hobby, ed è anche per questo che ora possono fare fatica a tornare alla frenetica vita precedente. In entrambi i casi, comunque, le nostre case sono diventate un rifugio, ci hanno tenuto al sicuro dal coronavirus ma anche lontani dal mondo, la cui routine spesso ci stressa.

Cosa succede nel momento in cui si ricomincia ad uscire e ritornare alla normalità?

Ci si può sentire a disagio perché le persone sono state in questo periodo sottoposte ad un evento stressante che nel bene e nel male ha modificato i loro comportamenti. Dopo mesi di quarantena c’è chi vive l’ansia di riprendere i ritmi precedenti, la paura di uscire e c’è anche chi ha scoperto che la vita in casa tutto sommato non è tanto male come si pensava all’inizio.

Si può sentire il peso del “distress”, la componente negativa dello stress: è qualcosa di molto meno definito, conseguente all’incertezza della situazione e la sua conclusione. L’ansia, l’apatia o l’alternanza di stati d’animo, sono tutti sintomi che in questo periodo possono essere sperimentati. Se si esce, ci si rende conto che il mondo come lo si conosceva è cambiato, e la nuova realtà che si presenta può essere disorientante e conseguentemente si tende a rigettarla. Tutti distanti l’uno dall’altro, con la mascherina, solo occhi scoperti che comunicano preoccupazione.

E si può avere paura. A livello pratico: se devo andare a fare la spesa devo toccare il carrello, ma chi l’avrà toccato prima di me? Se esco per andare al lavoro e devo prendere i mezzi pubblici potrei entrare in contatto con un asintomatico oppure potrei esserlo io. Se vado in ufficio mi trovo magari rinchiuso in un box di plexiglass.

A questo si somma il fatto che meno movimento faccio, meno esco di casa, meno avrò voglia di uscire.

E se invece di parlare di sindrome della capanna fosse solo una questione di abitudine?

Rimanendo a casa per molto tempo ci siamo intelligentemente adattati ad una nuova realtà. Si sono create nuove abitudini positive o negative. Infatti, c’è anche chi, mal volentieri, si è abituato alla nuova routine e a ritmi differenti da cui ora, ugualmente, ha paura di allontanarsi. L’isolamento è spiacevole ma i nostri meccanismi di sopravvivenza ci hanno permesso di contrastare quel sentimento e di adattarci al confinamento.

Può capitare, dunque, che diverse situazioni in cui ci si adatta a nuove realtà, che magari sono durate a lungo e che ci hanno coinvolto particolarmente sia in maniera positiva che negativa, siano difficili da abbandonare. Il distacco da queste situazioni diventa stressante e faticoso.

Anche qui vorrei fare degli esempi: alla fine di una bella vacanza rilassante è difficile tornare alla routine quotidiana, in questo caso dobbiamo lasciare delle abitudini positive come alzarsi tardi, nuotare nel mare, prendere il sole ecc..

Ma può succedere anche nel caso di un cambio di lavoro che magari non ci piaceva: come saranno i nuovi colleghi? Con quelli vecchi non andavo particolarmente d’accordo però almeno li conoscevo. In questo caso è la vecchia abitudine negativa che facciamo fatica a lasciar andare.

Nei casi più estremi, alcune persone trovano difficile abbandonare il carcere se non gli ospedali. Tutto ciò rende l’idea di quanto l’instaurarsi di un’abitudine impatta prepotentemente sul nostro modo di pensare e sentire a livello emotivo.

Abbandonare una vecchia abitudine se pur nociva e crearne una nuova può essere un evento che genera lieve-medio stress e che non tutti sono pronti ad affrontare nell’immediato.

Fortunatamente la nostra capacità di adattabilità ci verrà in aiuto facendoci provare queste sensazioni contrastanti solo transitoriamente.

Solo un ripiegamento eccessivo su se stessi, dentro casa e un totale disinteresse verso la socialità e il mondo esterno (soprattutto se prima della quarantena si era più estroversi) potrebbe far sorgere il dubbio su un possibile sviluppo di un tono depressivo che andrebbe prima riconosciuto e poi esplorato con l’aiuto di un professionista.

Manuela Cosenza

LA FAMIGLIA E IL SUO CICLO VITALE

Possiamo considerare la famiglia come un sistema emozionale plurigenerazionale costantemente sottoposto al cambiamento. Il compito della famiglia è quello di trasformarsi in relazione ai diversi bisogni evolutivi dei singoli componenti. Allo stesso tempo deve, però, mantenere intatta una stabilità, cioè conservare il senso della propria identità e continuità nel tempo.

I diversi cambiamenti comprendono il livello individuale (ciascun membro della famiglia evolve, cresce e si trasforma nel tempo, per cui ogni famiglia deve adattarsi e assecondare le trasformazioni relative allo sviluppo dei suoi diversi componenti), il livello interpersonale (le relazioni tra i membri si evolvono. es. figlio adolescente), il livello gruppale (trasformazioni nella composizione. es. nascita o adozione di un figlio, accoglimento in casa di un anziano, uscita di casa di un figlio o separazione dei coniugi), infine il livello sociale (trasformazioni che avvengono nel contesto sociale o culturale di riferimento. es. guerre, disoccupazione). 

I sistemi familiari sono, dunque, soggetti a continue modificazioni nel corso del tempo, passando attraverso una serie di stadi che nel loro insieme costituiscono il ciclo vitale familiare. Ogni volta che la famiglia accede ad una nuova fase, ha bisogno di ristrutturarsi perché deve affrontare una situazione nuova che mette in crisi le vecchie modalità di funzionamento. Il passaggio da una fase all’altra può essere un momento critico perché richiede ai membri della famiglia di cambiare qualcosa in se stessi e nel loro modo di relazionarsi, e non sempre le persone sono pronte o desiderose di mettere in atto i cambiamenti necessari. Ciascun evento non è critico in sé, ma assume un peso a seconda delle aspettative, delle attese individuali, familiari e sociali che lo anticipano. Il significato che viene attribuito ad un particolar evento critico concorre a determinare il tipo e l’intensità della difficoltà da esso suscitato. 

Ci sono due tipi di eventi critici che si interfacciano con la famiglia: quelli normativi, cioè, quelli attesi in un ciclo di vita come il matrimonio, la nascita di un figlio, la crescita; quelli paranormativi, cioè, quelli inattesi e meno frequenti come le malattie, le crisi economiche e le morti premature. 

L’evoluzione della famiglia è legata alle modalità con cui affronta lo squilibrio prodotto da ciascun elemento critico. Facciamo un esempio. Mario e Sonia, sposati da due anni hanno appena avuto un bambino. Rientrano pertanto nella fase del ciclo evolutivo della “famiglia con bambino” e l’evento critico che caratterizza questa fase è proprio la nascita stessa. Mario e Sonia hanno acquisito un ruolo in più perché oltre ad essere coppia coniugale e figli, sono diventati genitori. In questa fase specifica di sviluppo, allora, dovranno imparare ad adattarsi alla nuova struttura familiare che si è appena venuta a creare ponendo particolare attenzione ai compiti di sviluppo dei tre livelli relazionali su cui dovranno confrontarsi: quello coniugale, quello genitoriale e quello filiale.

Nella famiglia tradizionale occidentale moderna è possibile individuare cinque fasi che comprendono i momenti critici e i relativi compiti evolutivi:

– La formazione della coppia (consolidamento identità di coppia; ridefinizione relazioni con famiglia estesa e amici; indipendenza emotiva dalla famiglia d’origine). 

– La famiglia con bambini (responsabilità genitoriali; ridefinizione relazione di coppia).

– La famiglia con adolescenti o “trampolino di lancio” (cambiamenti relazionali genitori-figli; gestione del conflitto e dell’indipendenza dei figli).

– La famiglia dopo che i figli sono usciti di casa detta anche “nido vuoto” (allontanamento dei figli; ingresso nuore, generi, nipoti; adattamento livello di autonomia dei figli; ridefinizione relazione di coppia dei genitori).

– La famiglia nell’età anziana (mantenimento propri interessi; avvicinamento ai figli; assunzione ruolo di nonni).

Se la famiglia riesce a soddisfare i compiti evolutivi delle varie fasi, cresce e si perpetua superando armoniosamente i momenti critici. Se la famiglia non riesce a superare la crisi in modo armonioso, se non riesce a adempiere ai compiti propri di una nuova fase del ciclo di vita, si blocca e, in genere, sviluppa alcuni sintomi psicologici a carico di uno o più membri della famiglia.

Manuela Cosenza

Fonte: Malagoli Togliatti M., Lubrano Lavadera A. Dinamiche relazionali e ciclo di vita della famiglia. Bologna: Il Mulino, 2002. 

L’IMPATTO PSICOLOGICO DELLA QUARANTENA E COME RIDURLO

L’ epidemia di Coronavirus ha visto molti paesi chiedere a chi che avesse avuto contatti con persone infette di autoisolarsi a casa o in luoghi preposti alla quarantena. Molti studi riportano effetti psicologici negativi che includono sintomi da stress post-traumatico, confusione e rabbia. I fattori di stress includono: una maggiore durata della quarantena, paura di infettarsi, frustrazione, noia, forniture inadeguate, informazioni inadeguate, perdita finanziaria, e stigma. Alcuni ricercatori sostengono che ci possano essere effetti a lungo termine. In situazioni dove la quarantena si renda necessaria, le autorità competenti dovrebbero isolare i soggetti non più del tempo richiesto, provvedere a misure di quarantena molto chiare e ben spiegate e fornire informazioni riguardanti i protocolli per attuarla, assicurare che siano previste misure sufficienti, infine, favorire l’altruismo ricordando che i benefici della quarantena sono vantaggiosi per la comunità stessa.

La quarantena è una limitazione della circolazione delle persone che possono essere state a contatto con l’infezione con il fine di ridurre il contagio ad altri soggetti.  In passato ci sono state altre epidemie per le quali si è dovuto arrivare a misure di restrizione della libertà, come la SARS, l’Ebola, e l’influenza N1H1.

Gli studi esaminati evidenziano i risvolti psicologici di soggetti sottoposti a quarantena comparati con altri non sottoposti ad alcuna misura restrittiva. 

Uno studio che ha preso in esame operatori sanitari in quarantena ha evidenziato che la stessa sembra possa essere predittiva di sintomi di disturbo da stress acuto. Gli operatori sottoposti al confinamento riportano esaurimento, distacco dagli altri, ansia nel venire a contatto con soggetti febbricitanti, irritabilità, insonnia, scarsa concentrazione e indecisione, diminuzione delle prestazioni lavorative e riluttanza a ricominciare a lavorare o richiesta di riassegnazione. A lungo termine ci possono essere sintomi di depressione.

Effetti di stress post traumatico vengono riscontrati anche in bambini sottoposti a quarantena così come nei loro genitori 4 volte superiori rispetto a chi non ne era stato sottoposto.

In generale viene riportata una grande prevalenza di sintomi psicologici come disturbi emotivi, depressione, stress, abbassamento dell’umore, irritabilità, insonnia, esaurimento emotivo. Sembra che l’abbassamento dell’umore e l’irritabilità siano prevalenti.

Solo uno studio effettuato su soggetti universitari non riporta effetti in termini di sintomi da stress post-traumatico. Si ipotizza che il campione essendo composto da studenti possa non essere generalizzato alla popolazione adulta poiché gli studenti essendo giovani hanno meno responsabilità rispetto agli adulti, in qualche modo sono più spensierati e meno colpiti da preoccupazioni.

Per quanto riguarda gli effetti a lungo termine, due studi evidenziano abuso di alcol o dipendenze in lavoratori operanti nel sistema sanitario sottoposti a quarantena.

Predittori di impatto psicologico pre-quarantena

Sono un po’ controversi i fattori demografici come età, genere, livello di istruzione, stato civile ecc. che possano predisporre allo sviluppo di sintomi. Così come l’appartenenza alla categoria di lavoratori nell’area sanitaria. Disturbi psichiatrici precedenti alla quarantena invece, sono associati ad ansia e rabbia sviluppate 4/6 mesi dopo le misure di confinamento.

Fattori di stress durante la quarantena

  • Durata: più è lunga la quarantena più la salute mentale peggiora.
  • Paure di infezione: per loro stessi e soprattutto per i propri cari.
  • Frustrazione e noia: causata dal non poter più prendere parte alle normali attività quotidiane.
  • Rifornimenti inadeguati: come cibo, acqua, mascherine, servizi medici. L’impossibilità di ottenerli porta a rabbia e ansia.
  • Informazioni inadeguate: se le linee guida sono inadeguate generano solo confusione.

Fattori di stress post quarantena

  • Finanze: la perdita finanziaria causata dalla temporanea inattività professionale, è un fattore di rischio per lo sviluppo di sintomi e disturbi psicologici.
  • Stigma: soggetti sottoposti a misure di contenimento hanno riferito che venivano trattati in modo differente ovvero venivano evitati, non più invitati a eventi sociali, trattati con paura e sospetto oppure erano oggetto di commenti critici.

Cosa si può fare per mitigare le conseguenze della quarantena?

Sebbene la quarantena sia una misura necessaria durante le epidemie, gli effetti psicologici negativi possono essere piuttosto problematici. Ciò suggerisce che vi sia la necessità che misure per alleviare le conseguenze del confinamento siano messe in atto come parte integrante del processo di quarantena.

Le autorità competenti dovrebbero adottare tutte le misure atte a garantire che tale esperienza sia il più possibile tollerabile per le persone. Questo può essere ottenuto dicendo alle persone cosa sta succedendo e perché, spiegando per quanto tempo continuerà, fornendo loro attività significative da fare mentre sono in quarantena, fornendo una comunicazione chiara, garantendo forniture di base (come cibo, acqua e forniture mediche) e rafforzando il senso di altruismo che le persone dovrebbero, giustamente, provare.

Tratto da: The psychological impact of quarantine and how to reduce it: rapid review of the evidence. Samantha K Brooks, Rebecca K Webster, Louise E Smith, Lisa Woodland, Simon Wessely, Neil Greenberg, Gideon James Rubin.

Link all’articolo originale: https://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(20)30460-8/fulltext