SINDROME DELLA CAPANNA O SEMPLICEMENTE RETICENZA AD ABBANDONARE UN’ABITUDINE?

Negli ultimi giorni si parla spesso di questa sindrome della capanna (o sindrome del prigioniero). Varie testate giornalistiche e vari blog segnalano tale problematica: per alcuni è una definizione coniata dalla psicologa Hernandez, mentre altri fanno riferimento ad autori americani che spiegano quanto succede durante i lunghi e rigidi inverni di alcune località in cui le persone sono costrette ad isolarsi in casa, facendo fatica poi a disabituarsi da questo isolamento e percependo stress nel ritornare alla vita sociale. 

Sindrome della capanna: di cosa si tratta realmente?

Durante questi mesi di confinamento a causa del coronavirus, ci sono stati due tipi di reazioni: chi ha subito il confinamento trovandosi in uno stato di forte stress e chi ha invece reagito in modo attivo, ritrovando piccoli piaceri, voglia di stare in famiglia e scoprendo passatempi e passioni. In questo caso la quarantena ha permesso alle persone di avere maggiore tempo per se stesse, i loro cari e i loro hobby, ed è anche per questo che ora possono fare fatica a tornare alla frenetica vita precedente. In entrambi i casi, comunque, le nostre case sono diventate un rifugio, ci hanno tenuto al sicuro dal coronavirus ma anche lontani dal mondo, la cui routine spesso ci stressa.

Cosa succede nel momento in cui si ricomincia ad uscire e ritornare alla normalità?

Ci si può sentire a disagio perché le persone sono state in questo periodo sottoposte ad un evento stressante che nel bene e nel male ha modificato i loro comportamenti. Dopo mesi di quarantena c’è chi vive l’ansia di riprendere i ritmi precedenti, la paura di uscire e c’è anche chi ha scoperto che la vita in casa tutto sommato non è tanto male come si pensava all’inizio.

Si può sentire il peso del “distress”, la componente negativa dello stress: è qualcosa di molto meno definito, conseguente all’incertezza della situazione e la sua conclusione. L’ansia, l’apatia o l’alternanza di stati d’animo, sono tutti sintomi che in questo periodo possono essere sperimentati. Se si esce, ci si rende conto che il mondo come lo si conosceva è cambiato, e la nuova realtà che si presenta può essere disorientante e conseguentemente si tende a rigettarla. Tutti distanti l’uno dall’altro, con la mascherina, solo occhi scoperti che comunicano preoccupazione.

E si può avere paura. A livello pratico: se devo andare a fare la spesa devo toccare il carrello, ma chi l’avrà toccato prima di me? Se esco per andare al lavoro e devo prendere i mezzi pubblici potrei entrare in contatto con un asintomatico oppure potrei esserlo io. Se vado in ufficio mi trovo magari rinchiuso in un box di plexiglass.

A questo si somma il fatto che meno movimento faccio, meno esco di casa, meno avrò voglia di uscire.

E se invece di parlare di sindrome della capanna fosse solo una questione di abitudine?

Rimanendo a casa per molto tempo ci siamo intelligentemente adattati ad una nuova realtà. Si sono create nuove abitudini positive o negative. Infatti, c’è anche chi, mal volentieri, si è abituato alla nuova routine e a ritmi differenti da cui ora, ugualmente, ha paura di allontanarsi. L’isolamento è spiacevole ma i nostri meccanismi di sopravvivenza ci hanno permesso di contrastare quel sentimento e di adattarci al confinamento.

Può capitare, dunque, che diverse situazioni in cui ci si adatta a nuove realtà, che magari sono durate a lungo e che ci hanno coinvolto particolarmente sia in maniera positiva che negativa, siano difficili da abbandonare. Il distacco da queste situazioni diventa stressante e faticoso.

Anche qui vorrei fare degli esempi: alla fine di una bella vacanza rilassante è difficile tornare alla routine quotidiana, in questo caso dobbiamo lasciare delle abitudini positive come alzarsi tardi, nuotare nel mare, prendere il sole ecc..

Ma può succedere anche nel caso di un cambio di lavoro che magari non ci piaceva: come saranno i nuovi colleghi? Con quelli vecchi non andavo particolarmente d’accordo però almeno li conoscevo. In questo caso è la vecchia abitudine negativa che facciamo fatica a lasciar andare.

Nei casi più estremi, alcune persone trovano difficile abbandonare il carcere se non gli ospedali. Tutto ciò rende l’idea di quanto l’instaurarsi di un’abitudine impatta prepotentemente sul nostro modo di pensare e sentire a livello emotivo.

Abbandonare una vecchia abitudine se pur nociva e crearne una nuova può essere un evento che genera lieve-medio stress e che non tutti sono pronti ad affrontare nell’immediato.

Fortunatamente la nostra capacità di adattabilità ci verrà in aiuto facendoci provare queste sensazioni contrastanti solo transitoriamente.

Solo un ripiegamento eccessivo su se stessi, dentro casa e un totale disinteresse verso la socialità e il mondo esterno (soprattutto se prima della quarantena si era più estroversi) potrebbe far sorgere il dubbio su un possibile sviluppo di un tono depressivo che andrebbe prima riconosciuto e poi esplorato con l’aiuto di un professionista.

Manuela Cosenza