LE REGOLE DELL’ ASSERTIVITÀ

Quante volte ci è capitato di trovarci in una situazione per noi spiacevole ma abbiamo deciso di stare zitti per evitare il conflitto? 

Fuggire dai conflitti è un modo per evitare l’ansia che produce la discussione. Chi evita di discutere può avere paura di perdere le persone care o di non essere all’altezza della situazione. 

Oppure, quante volte, invece, per paura di soccombere abbiamo tirato fuori un’aggressività così forte da spaventare perfino un leone affamato?

A volte lo scopo della comunicazione diventa quello di dover lottare contro l’altro per dimostrare il proprio valore, andando fino a denigrare, ferire o attaccare l’altro pur di vincere la battaglia verbale. 

Per affrontare il conflitto in modo sano è efficace la comunicazione assertiva: ci permette di esprimere la nostra opinione con tutta onestà, senza essere aggressivi e senza offendere chi abbiamo di fronte.

Si decide, cioè, di interrompere la dinamica di comunicazione prevaricante: si smette di competere lasciando spazio al partecipare, collaborare, affinché lo scambio di opinioni possa arricchire entrambe le parti.

Cos’è l’assertività e come può migliorare i rapporti?

L’assertività è grossomodo quella capacità di affermare le proprie opinioni e farsi valere rispettando contemporaneamente gli altri, di accettare che l’altro possa avere una visione diversa dalla nostra senza sentirci in dovere di competere con esso. 

Come si può svilupparla?

Ecco alcune regole

1. Difendi le tue idee ma accetta che altre persone possano pensarla diversamente da te.

2. Sii aperto al cambiamento, al confronto rispettoso di idee e non temere di aggiornarti. 

3. Evita di proiettare sul mondo e sugli altri il tuo stato interiore:ansie, paure, tristezza, rabbia.

4. Coltiva una concreta fiducia in te e sicurezza nelle tue capacità.

5. Cerca di esprimerti nel modo più chiaro e diretto possibile

6. Cerca l’equilibrio: difendi le tue idee senza aggredire ma non fare nemmeno la parte dello zerbino. 

7. Scopri quali sono i limiti che gli altri non devono oltrepassare e comunicalo con chiarezza.

8. Conosci i tuoi diritti, i tuoi doveri verso di te e verso gli altri. Rispetta la tua sfera personale.

9. Non prendere le critiche sul personale e, se sono mosse con rispetto e spirito costruttivo, accoglile come spunti di riflessione per migliorare.

10. Rispetta gli altri e chiedi di essere trattato con rispetto a tua volta.

Manuela Cosenza

AUTISMO IN PELLICOLA: UNA RASSEGNA CINEMATOGRAFICA

Sebbene la maggior parte del pubblico ritenga che il primo film sull’autismo sia stato “Rain Man” del 1988, alcuni fanno risalire la prima comparsa di questa malattia nell’ambito cinematografico al film “L’enfant sauvage” di François Truffaut del 1968. Il film è ispirato ad una storia realmente accaduta: nel 1800, in Francia, un gruppo di cacciatori trova un bambino in una foresta che non è in grado di parlare e agisce solo come un animale. Il noto medico, filosofo e pedagogista Itard, si assume la responsabilità di curarlo. Dopo 6 anni di continuo lavoro il medico si rassegna al fatto che il ragazzo non riuscirà mai ad apprendere il linguaggio umano, dato che fino all’età di undici anni nessuno gli aveva mai parlato, ma otterrà ugualmente enormi e significativi progressi nell’educazione del ragazzo e nel suo riadattamento ad una vita in società, anche grazie all’aiuto della Governante Madame Guerin.

Nonostante in quel periodo storico non fosse ancora stato definito il disturbo autistico come patologia, alcuni sintomi riportati da questo soggetto hanno fatto pensare proprio a questa sindrome (Frith,1998).

Nel film traspare un evidente confronto con il diverso e la necessità di una rieducazione dei sensi, dell’intelligenza e della moralità proprio perché in quegli anni vi era ancora una marcata suddivisione tra il “normale” e il “folle” che permane tuttavia fino ai giorni nostri, sebbene vada lievemente attenuandosi.

Diverso è l’approccio cinematografico nel film “Rain man” (1988 diretto da Barry Lavinson). Charlie Babbit, giovane commerciante di auto sportive, apprende con la morte di suo padre, che l’unico erede dell’immenso patrimonio familiare è suo fratello maggiore Raymond, un uomo affetto da autismo. Sentitosi tradito dal genitore e indebitato sul lavoro a causa di investimenti fallimentari, decide di portare via Raymond dalla clinica psichiatrica di Cincinnati in cui è permanentemente ricoverato, nella speranza di riuscire ad essere riconosciuto come suo tutore legale e quindi beneficiare del patrimonio paterno. 

Durante il viaggio verso Los Angeles, che si prolunga per le necessità di Raymond, (non può volare, non può fare l’autostrada, a causa della sua paura degli incidenti), Charlie comincia a conoscere veramente suo fratello, un individuo la cui vita è scandita da gesti meccanici e frasi ripetitive ma dotato anche di una incredibile memoria e capacità di calcolo 

Il personaggio di Raymond ha preso ispirazione dalla figura di Kim Peek, nato con una macrocefalia associata a danni al cervelletto, e, ciò che forse più conta, un’agenesia del corpo calloso. È stato supposto che i suoi neuroni, in assenza di un corpo calloso, abbiano creato nuove connessioni, che hanno comportato una maggiore capacità mnemonica.

In questa rappresentazione cinematografica cambia l’approccio all’autismo: non è più solo un essere da educare. È ma una persona con grandi difficoltà, ma con delle capacità intellettive superiori. Vi è una sorta di ammirazione, di curiosità e di fascino verso una mente sapiente e sconosciuta. Nonostante ciò, rimane nella concezione comune, l’inevitabilità della reclusione dei “diversi” nelle case di cura, come se fosse un’ovvietà, senza la possibilità di soluzioni alternative.

Nel 1994 esce il film “Silent Fall” di Bruce Beresford: nel giorno di Halloween, la polizia bussa alla porta dello psichiatra infantile Jake Rainer per chiedere il suo aiuto riguardo all’omicidio di una facoltosa coppia di Baltimora, i Warden. Sul luogo del delitto viene trovato Tim, un bambino autistico di nove anni che ha visto in faccia l’assassino dei suoi genitori, e Sylvie, la sorella maggiore diciottenne che afferma di non ricordare niente. Jake è inizialmente riluttante a collaborare alle indagini a causa di un trauma ancora recente con un giovane paziente. Decide però, alla fine, di adottare i due ragazzi e di cercare di liberare dall’involucro dei ricordi di Tim la soluzione all’omicidio.

Durante il film vi sono riferimenti classici relativi alla sintomatologia dell’autismo: mutismo e comunicazione attraverso i simboli oppure attraverso la ripetizione di frasi già sentite, comportamenti aggressivi e disinteresse verso le altre persone. 
Si aggiunge una novità al ruolo del bambino autistico: non solo appare la sua genialità, ma diventa risolutore del caso. È addirittura il salvatore del dottore che lo ha in cura, come quasi a voler bilanciare la sua diversità, non solo con la genialità, ma con l’eroismo. Sembra che si voglia trasmettere il concetto del: io sono diverso, malato folle, ma non sono da buttare o rinchiudere perché ho delle qualità superiori alla norma, una richiesta di iper-accettazione per bilanciare il rifiuto della malattia.

Negli ultimi anni, tra il 2005 e il 2010, sono usciti tre film riguardanti uno degli aspetti dello spettro autistico: la sindrome di Asperger. 

“Crazy in love” (2005) diretto da Petter Naess, nel quale troviamo Donald, un tenero tassista affetto da autismo, con grande abilità con i numeri e una passione per gli uccelli. Un giorno, a spezzare la sua normale vita fatta di riti quotidiani, arriva Isabel, ragazza con la sindrome di Asperger, con la passione per la musica e l’arte, che gli stravolgerà la vita ma soprattutto il cuore. La sindrome di Asperger però non è posta al centro delle vicende, seppur vi sia l’apprezzabile intento di portarla alla luce, ma è alla fine più un artificio per complicare ulteriormente quel meccanismo così contorto che è l’amore, vero fulcro narrativo della pellicola.

“Adam” del 2009 è un film diretto da Max Meyer il cui protagonista è un giovane ingegnere elettronico che realizza giocattoli per una fabbrica, con la passione per l’astronomia. Il suo destino sembra essere la solitudine perché è afflitto dalla sindrome di Asperger. Un giorno, nel locale della lavanderia, incontra Beth, una scrittrice di libri per bambini che insegna in una scuola. Potrebbe nascerne una storia a due ma alla fine le difficoltà relazionali di Adam impediscono il fiorire della relazione.
Il film di Mayer si focalizza sulla complessa ricerca di cosa significhi amare e lasciarsi amare, tralasciando la parte più romantica della relazione di coppia.

“Ben X” film belga del 2007 diretto da Nic Balthazar. Ben è un adolescente belga, vittima suo malgrado di terribili atti di bullismo quotidiani, perpetrati da suoi compagni di scuola. Anche per sfuggire alla cruda realtà, il ragazzo ha una grande passione per un gioco di ruolo online di ambientazione fantasy chiamato Archlord. In questo mondo virtuale il suo alter ego “Ben X” ha raggiunto un livello di bravura notevolissimo. Lì Ben diventa più sicuro di sé e più coraggioso. Instaura anche una sorta di relazione platonica con un’altra utente del gioco, una ragazza che si fa chiamare Scarlite. Attraverso l’aiuto di questa ragazza, che non riesce mai a conoscere nel mondo reale ma che esiste nella vita virtuale e nella sua mente, escogita un piano per vendicarsi dei suoi compagni attraverso un finto suicidio e un funerale plateale con tanto di video riguardante gli atti di bullismo da lui subiti per smascherarli davanti a tutti.

In questa produzione ravvicinata di lavori cinematografici relativi alla malattia, cade lo stupore per la diversità paragonata alla genialità dei protagonisti. Nei primi due film viene trattato per la prima volta l’amore in soggetti con difficoltà relazionali gravi nei quali rimane evidente e pervasivo il fatto che c’è una netta divisione tra l’essere umano normale e il malato che non può in ogni caso costruirsi una vita basata sui canoni dettati da una società fondata su regole formali. Nel terzo viene inserita, oltre all’emarginazione dell’essere diverso, di vivere all’interno di un mondo con il quale non riesce ad interagire, anche la sofferenza per essere vittime di atti di bullismo da parte dei compagni. Come se, per il fatto di essere diversi, il protagonista si debba meritare la ridicolarizzazione dei soggetti normali, per creare una divisione ancora più netta tra il sano e il malato. Cosa che però verso la fine del film viene ribaltata grazie all’intelligenza strategica di Ben. Si ritorna quindi a enfatizzare la genialità di queste persone che salvano il mondo e in questo caso se stesse. 

Riappare il concetto dell’autistico intelligente, geniale e capace con la produzione di Mick Jackson del 2010 “Temple Grandin – Una donna straordinaria”. Il film è un’autobiografia di una savant, una donna autistica dotata di straordinarie capacità e s’ispira appunto alla storia vera di Temple Grandin, una sessantenne americana, tenace attivista del movimento in tutela dei diritti degli animali e delle persone autistiche, con due lauree in Psicologia e in Zoologia e un master in Scienze Animali. La donna ha superato un’infanzia turbolenta, durante la quale le era stata diagnosticata la schizofrenia infantile, e un’adolescenza dura, fatta di incomprensioni, pregiudizi e rifiuti. Grazie all’aiuto della famiglia, a una singolare immaginazione e a una ostinata determinazione, la scienziata autistica è riuscita a scardinare il concetto dell’autismo come malattia debilitante e delimitante. È l’evoluzione faticosa di un personaggio che conquista una dignità che la società generalmente trascura di rispettare.

Manuela Cosenza

UNA PERSONALE STRATEGIA PER COMBATTERE LA PAURA

Oggi mi sono svegliata con un po’ di ansia mista a paura. Eh, si… anche gli psicologi hanno paura.

E ben ci sta vista la situazione di questi giorni…

La paura è necessaria. È quella cosa che ci impedisce di fare delle emerite ca***te, che ci rende coscienziosi davanti a certi eventi e situazioni.

I manuali recitano: l’ansia è un’attivazione emozionale che ha la funzione di preservare la sopravvivenza psico-fisica dell’individuo, essa rappresenta la naturale risposta alla percezione di un pericolo o di una minaccia, una risposta adattiva legata alla paura e che precede un’azione difensiva di attacco o fuga.

Quindi ne deduciamo che ci è utile. Ma cosa succede quando diventa eccessiva??  Andiamo in tilt, non ragioniamo più, straparliamo e agiamo di impulso. Punto.

Si parla della cosiddetta curva dell’ansia: all’aumentare dell’ansia oltre la soglia ottimale, infatti, peggiorano progressivamente le abilità cognitive implicate nella prestazione. 

Come si può fermare questa escalation? Se è vero che i nostri pensieri possono portarci ad avere delle convinzioni catastrofiche irrazionali, è vero anche che possiamo fermarli.

Ma come? Facendo qualcosa di manuale che porti l’attenzione al qui e ora.

Ai tempi del coronavirus il lavoro è rallentato, se non fermo per alcune persone e quindi dopo aver riassettato casa, fatto le pulizie di primavera, tirato giù le tende, cucinato, fatto dolci, fatta la pizza (che come al solito mi viene dura modello ammazza gente se la tiro a qualcuno), “shabbato” gli ultimi mobiletti di casa, letto libri, studiato ecc. ecc. mi sono ritrovata stamattina a pensare: e oggi? Che faccio? Dopo aver passato un’ora a riempirmi la testa di notizie sul coronavirus, i pensieri hanno preso il sopravvento e la paura ha cominciato a salire. Devo correre ai ripari, ho pensato. Ma ho fatto tutto, mi sono risposta.

Poi, un’idea!

Tutto ciò che ho fatto nei giorni scorsi rientrava in quelle cose che so fare (a parte la pizza), che rientrano nella mia zona di comfort. C’è una cosa che non mi mette per niente a mio agio: il giardinaggio (eh lo so sembra una cosa stupida, ma mettere le mani nella terra piena di insetti vari non è il mio forte). Di solito se ne occupa il mio giardiniere di fiducia, che è la mia mamma (ah se non avessi lei!!). Anche lei bloccata a casa, di certo non poteva farsi un’autocertificazione per venire a pulire le aiuole di sua figlia! E allora mi sono data da fare! Mi sono fatta dare istruzioni, mi sono fatta dire dove sono tutti gli strumenti del caso e sono partita alla volta del giardino di casa.

Ho guardato la mia cara aiuola da pulire ed ho cominciato. E nel farlo ho incontrato nell’ordine: un lombrico viscido e lucido, dei ragnetti schifosissimi bianchi, ho pestato un formicaio (mamma come erano arrabbiate) e perfino una cimice verdissima! Fuori stagione!

Senza urletti.

Sì, perché gli insetti mi fanno urlare e anche un po’ battere forte il cuore dallo spavento.

Ed ho capito una cosa: fare ciò che un po’ ci spaventa è come mettersi alla prova ed allenarsi a tollerare la paura. E finito il lavoro mi sono sentita soddisfatta e anche un po’ più coraggiosa. Un po’ più pronta ad affrontare i giorni a venire con tutte le incertezze che ci porteranno. Io ho trovato questa soluzione per me. Non è detto che sia uguale per tutti. Ma è una strategia dalla quale poter prendere spunto per superare le proprie paure.

Manuela Cosenza

PSICOLOGIA DEL CICLO DI VITA: DALLE CONCETTUALIZZAZIONI DI SVILUPPO EVOLUTIVO INDIVIDUALE A QUELLO FAMILIARE

L’espressione “ciclo di vita” viene usata per indicare l’evolvere nel tempo sia dell’individuo che della famiglia. 

E.Erikson (1951) e D. Levinson (1978) sono due autori che hanno concettualizzato il ciclo di vita individuale attraverso dei modelli. Secondo Erikson durante lo sviluppo dell’individuo, che procede fino alla vecchiaia, sono collocati 8 stadi del ciclo individuale. Essi sono caratterizzati da specifiche crisi psico-sociali che portano con sé un compito di sviluppo a cui l’individuo deve rispondere e la cui modalità di risoluzione influenzerà il successivo sviluppo. 

  1. Fiducia opposta a sfiducia (dalla nascita al primo anno): si caratterizza per il conflitto tra fiducia che deriva dalla qualità della relazione caregiver-bambino e sfiducia nel caso in cui tale relazione sia deficitaria. In questo caso il bambino svilupperà un senso di sfiducia che si espanderà gradualmente a tutta la realtà che lo circonda.
  2. Autonomia opposta a vergogna o dubbio (da uno a tre anni): il bambino inizia a fare le sue prime conquiste nelle abilità motorie che lo rendono fiero e autonomo, ma lo espongono anche a fallimenti, goffaggini, errori, da cui scaturisce la vergogna e il dubbio sulle proprie possibilità di riuscita ostacolando la sua inclinazione naturale all’autonomia.
  3. Iniziativa opposta a senso di colpa (da tre a cinque anni): in questa fase il bambino diviene esplorativo e curioso. Se, i genitori lo incoraggiano e tollerano la sua curiosità, allora egli imparerà ad agire e ad avere iniziativa. Laddove, i genitori non accetteranno e puniranno le nuove curiosità, i bambini svilupperanno un senso di colpa.
  4. Industriosità opposta a senso di inferiorità (da cinque a dieci anni): il bambino fa il suo ingresso a scuola, dove si misura con gli altri e si cimenta in compiti di apprendimento. Egli prova a rispondere a queste nuove richieste e se incontra difficoltà, può sentirsi inferiore e mediocre, sentirsi demotivato oppure comportarsi in modo meccanico e distaccato. 
  5. Identità opposta a dispersione o confusione di ruoli (preadolescenza e adolescenza): il ragazzo deve elaborare le molteplici trasformazioni corporee, cognitive e sociali ed emanciparsi dalla famiglia delineando una propria identità. Una difficoltà in questo compito può portare ad esperienze estreme o a identificazioni con modelli numerosi e contraddittori. 
  6. Intimità opposta a isolamento (età giovanile): Il giovane avverte la necessità di una relazione intima appagante che può trasformarsi in una relazione stabile e duratura, sia come unione tra sessi opposti (amore, passione, progetto di vita), sia come relazione asessuata (amicizia). Chi non riuscirà a vivere questo profondo sentimento di intimità, sentirà un forte senso di isolamento e solitudine.
  7. Generatività opposta a stagnazione (anni della maturità): il compito evolutivo che la persona è chiamata a rispondere in questa fase riguarda la generatività, intesa da Erikson non solo in relazione alla volontà di procreare, ma anche la possibilità di lasciare qualcosa alle generazioni successive come nel caso dell’insegnante, del ricercatore, dell’artista, etc. Altrimenti insorge la classica domanda: «cosa ho fatto nella mia vita?» e si prova un senso di sterilità e insoddisfazione. 
  8. Integrità dell’IO opposta a disperazione (la terza età): è lo stadio in cui l’individuo, giunto vicino al traguardo della propria vita, osserva il proprio percorso e si guarda indietro. Se il bilancio è positivo, quando l’individuo non sente forti rimpianti e avverte un senso di soddisfazione, tutto questo favorirà un’integrità dell’IO che consente di congedarsi dalla vita serenamente, accettando la propria morte. 

Anche Levinson ha studiato le fasi della vita, occupandosi in particolare della vita adulta. La struttura della vita consiste in una serie di periodi di stabilità (dedicati alla sua costruzione) alternati a periodi di transizione, durante i quali essa muta. Durante i periodi di stabilità, che possono durare da sei a dieci anni al massimo, un individuo cerca di creare una struttura soddisfacente per lui, conformemente alle scelte-chiave fatte nel periodo di transizione. La transizione è vista, invece, come tappa necessaria ai fini della maturazione del soggetto, permettendo un avanzamento lungo la linea evolutiva individuale attraverso una ridefinizione di sé, che necessariamente porta ad una modificazione della struttura. I compiti evolutivi per l’individuo consistono essenzialmente nell’operare delle scelte determinate da eventi particolari, che segnano il cambiamento nella biografia individuale: i marker events (matrimonio, malattie, morte, pensionamento, guerre). 

Levinson descrive così le varie ere che formano la macrostruttura del ciclo vitale: 

  • 0-22 anni – infanzia e adolescenza
  • 23-35/40 anni – prima età adulta
  • 40-65 anni – media età adulta
  • Dopo i 60 anni – tarda età adulta

Tali stadi sono inframmezzati da tre periodi di transizione: 

• Transizione della prima età adulta
• Transizione della media età adulta
• Transizione della tarda età adulta 

Il ciclo di vita inteso come individuale può prendere una connotazione sociale all’interno del contesto familiare. Proprio in tale contesto l’individuo, immerso tra genitori e figli e altre generazioni congiunte, impara ad affermare la propria identità. 

Haley (1973) sottolinea la stretta interdipendenza dei vari cicli vitali individuali dei componenti di una famiglia. Egli ha messo in evidenza che lo stress familiare diventa più intenso nelle fasi di transizione da uno stadio all’altro e che i sintomi patologici possono comparire più facilmente in caso di interruzione o deviazione nel processo evolutivo. 

Carter e McGoldrick (1980) presentano un modello organizzato intorno al concetto di ciclo vitale della famiglia concepito in termini di connessioni intergenerazionali.  Definiscono la famiglia come un sistema emozionale plurigenerazionale, in quanto comprende almeno tre o quattro generazioni che in ogni fase si trovano a dover cambiare simultaneamente e adattarsi alle transazioni del ciclo di vita, attraverso confronti con aspettative e bisogni diversi tra loro. Secondo le autrici, le problematiche derivanti dalla storia trigenerazionale (asse verticale), quando si incrociano con quelle che si possono incontrare durante il proprio ciclo di vita (asse orizzontale), possono generare dei sintomi.

Le autrici suddividono il ciclo di vita della famiglia in sei stadi: il giovane adulto tra due famiglie, la giovane coppia, la famiglia con bambini piccoli, la famiglia con adolescenti, la famiglia ”trampolino di lancio” per i figli, la famiglia in tarda età. Il processo fondamentale consiste nella trasformazione del sistema di relazioni allo scopo di permettere l’entrata e l’uscita e lo sviluppo dei membri della famiglia. 

Scabini (1985) focalizza l’attenzione sull’identità organizzativa della famiglia. Nello specifico la famiglia moderna è una particolare organizzazione delle relazioni di parentela che privilegia i rapporti tra i coniugi, e tra questi e i loro figli, e che intrattiene significative relazioni con le proprie famiglie di origine. 

Ogni famiglia appena costituita si colloca infatti all’intersezione di due storie familiari che derivano da un complesso albero genealogico, inoltre ogni nucleo familiare si preconfigura un futuro ricco di aspettative e programmi con tempi e scadenze dettate in gran parte da norme sociali. Le fasi del ciclo di vita della famiglia sono definite da eventi critici prevedibili (nascita dei figli, adolescenza, pensionamento) e imprevedibili (malattia, problemi economici, ecc.). Essi portano a una prima fase di crisi o rottura con le precedenti modalità organizzative della famiglia stessa innescando le transizioni da una fase del ciclo vitale della famiglia a quella successiva.  Ciascun evento critico pone la famiglia di fronte a dei compiti di sviluppo che riguardano la rinegoziazione dei ruoli e delle funzioni, e la riorganizzazione delle relazioni. Se la famiglia non riuscirà a superare la crisi e il processo evolutivo si bloccherà, vivrà una situazione di grande sofferenza che potrà manifestarsi nel comportamento sintomatico di uno o più dei suoi membri. 

Manuela Cosenza