Sebbene la maggior parte del pubblico ritenga che il primo film sull’autismo sia stato “Rain Man” del 1988, alcuni fanno risalire la prima comparsa di questa malattia nell’ambito cinematografico al film “L’enfant sauvage” di François Truffaut del 1968. Il film è ispirato ad una storia realmente accaduta: nel 1800, in Francia, un gruppo di cacciatori trova un bambino in una foresta che non è in grado di parlare e agisce solo come un animale. Il noto medico, filosofo e pedagogista Itard, si assume la responsabilità di curarlo. Dopo 6 anni di continuo lavoro il medico si rassegna al fatto che il ragazzo non riuscirà mai ad apprendere il linguaggio umano, dato che fino all’età di undici anni nessuno gli aveva mai parlato, ma otterrà ugualmente enormi e significativi progressi nell’educazione del ragazzo e nel suo riadattamento ad una vita in società, anche grazie all’aiuto della Governante Madame Guerin.
Nonostante in quel periodo storico non fosse ancora stato definito il disturbo autistico come patologia, alcuni sintomi riportati da questo soggetto hanno fatto pensare proprio a questa sindrome (Frith,1998).
Nel film traspare un evidente confronto con il diverso e la necessità di una rieducazione dei sensi, dell’intelligenza e della moralità proprio perché in quegli anni vi era ancora una marcata suddivisione tra il “normale” e il “folle” che permane tuttavia fino ai giorni nostri, sebbene vada lievemente attenuandosi.
Diverso è l’approccio cinematografico nel film “Rain man” (1988 diretto da Barry Lavinson). Charlie Babbit, giovane commerciante di auto sportive, apprende con la morte di suo padre, che l’unico erede dell’immenso patrimonio familiare è suo fratello maggiore Raymond, un uomo affetto da autismo. Sentitosi tradito dal genitore e indebitato sul lavoro a causa di investimenti fallimentari, decide di portare via Raymond dalla clinica psichiatrica di Cincinnati in cui è permanentemente ricoverato, nella speranza di riuscire ad essere riconosciuto come suo tutore legale e quindi beneficiare del patrimonio paterno.
Durante il viaggio verso Los Angeles, che si prolunga per le necessità di Raymond, (non può volare, non può fare l’autostrada, a causa della sua paura degli incidenti), Charlie comincia a conoscere veramente suo fratello, un individuo la cui vita è scandita da gesti meccanici e frasi ripetitive ma dotato anche di una incredibile memoria e capacità di calcolo
Il personaggio di Raymond ha preso ispirazione dalla figura di Kim Peek, nato con una macrocefalia associata a danni al cervelletto, e, ciò che forse più conta, un’agenesia del corpo calloso. È stato supposto che i suoi neuroni, in assenza di un corpo calloso, abbiano creato nuove connessioni, che hanno comportato una maggiore capacità mnemonica.
In questa rappresentazione cinematografica cambia l’approccio all’autismo: non è più solo un essere da educare. È ma una persona con grandi difficoltà, ma con delle capacità intellettive superiori. Vi è una sorta di ammirazione, di curiosità e di fascino verso una mente sapiente e sconosciuta. Nonostante ciò, rimane nella concezione comune, l’inevitabilità della reclusione dei “diversi” nelle case di cura, come se fosse un’ovvietà, senza la possibilità di soluzioni alternative.
Nel 1994 esce il film “Silent Fall” di Bruce Beresford: nel giorno di Halloween, la polizia bussa alla porta dello psichiatra infantile Jake Rainer per chiedere il suo aiuto riguardo all’omicidio di una facoltosa coppia di Baltimora, i Warden. Sul luogo del delitto viene trovato Tim, un bambino autistico di nove anni che ha visto in faccia l’assassino dei suoi genitori, e Sylvie, la sorella maggiore diciottenne che afferma di non ricordare niente. Jake è inizialmente riluttante a collaborare alle indagini a causa di un trauma ancora recente con un giovane paziente. Decide però, alla fine, di adottare i due ragazzi e di cercare di liberare dall’involucro dei ricordi di Tim la soluzione all’omicidio.
Durante il film vi sono riferimenti classici relativi alla sintomatologia dell’autismo: mutismo e comunicazione attraverso i simboli oppure attraverso la ripetizione di frasi già sentite, comportamenti aggressivi e disinteresse verso le altre persone.
Si aggiunge una novità al ruolo del bambino autistico: non solo appare la sua genialità, ma diventa risolutore del caso. È addirittura il salvatore del dottore che lo ha in cura, come quasi a voler bilanciare la sua diversità, non solo con la genialità, ma con l’eroismo. Sembra che si voglia trasmettere il concetto del: io sono diverso, malato folle, ma non sono da buttare o rinchiudere perché ho delle qualità superiori alla norma, una richiesta di iper-accettazione per bilanciare il rifiuto della malattia.
Negli ultimi anni, tra il 2005 e il 2010, sono usciti tre film riguardanti uno degli aspetti dello spettro autistico: la sindrome di Asperger.
“Crazy in love” (2005) diretto da Petter Naess, nel quale troviamo Donald, un tenero tassista affetto da autismo, con grande abilità con i numeri e una passione per gli uccelli. Un giorno, a spezzare la sua normale vita fatta di riti quotidiani, arriva Isabel, ragazza con la sindrome di Asperger, con la passione per la musica e l’arte, che gli stravolgerà la vita ma soprattutto il cuore. La sindrome di Asperger però non è posta al centro delle vicende, seppur vi sia l’apprezzabile intento di portarla alla luce, ma è alla fine più un artificio per complicare ulteriormente quel meccanismo così contorto che è l’amore, vero fulcro narrativo della pellicola.
“Adam” del 2009 è un film diretto da Max Meyer il cui protagonista è un giovane ingegnere elettronico che realizza giocattoli per una fabbrica, con la passione per l’astronomia. Il suo destino sembra essere la solitudine perché è afflitto dalla sindrome di Asperger. Un giorno, nel locale della lavanderia, incontra Beth, una scrittrice di libri per bambini che insegna in una scuola. Potrebbe nascerne una storia a due ma alla fine le difficoltà relazionali di Adam impediscono il fiorire della relazione.
Il film di Mayer si focalizza sulla complessa ricerca di cosa significhi amare e lasciarsi amare, tralasciando la parte più romantica della relazione di coppia.
“Ben X” film belga del 2007 diretto da Nic Balthazar. Ben è un adolescente belga, vittima suo malgrado di terribili atti di bullismo quotidiani, perpetrati da suoi compagni di scuola. Anche per sfuggire alla cruda realtà, il ragazzo ha una grande passione per un gioco di ruolo online di ambientazione fantasy chiamato Archlord. In questo mondo virtuale il suo alter ego “Ben X” ha raggiunto un livello di bravura notevolissimo. Lì Ben diventa più sicuro di sé e più coraggioso. Instaura anche una sorta di relazione platonica con un’altra utente del gioco, una ragazza che si fa chiamare Scarlite. Attraverso l’aiuto di questa ragazza, che non riesce mai a conoscere nel mondo reale ma che esiste nella vita virtuale e nella sua mente, escogita un piano per vendicarsi dei suoi compagni attraverso un finto suicidio e un funerale plateale con tanto di video riguardante gli atti di bullismo da lui subiti per smascherarli davanti a tutti.
In questa produzione ravvicinata di lavori cinematografici relativi alla malattia, cade lo stupore per la diversità paragonata alla genialità dei protagonisti. Nei primi due film viene trattato per la prima volta l’amore in soggetti con difficoltà relazionali gravi nei quali rimane evidente e pervasivo il fatto che c’è una netta divisione tra l’essere umano normale e il malato che non può in ogni caso costruirsi una vita basata sui canoni dettati da una società fondata su regole formali. Nel terzo viene inserita, oltre all’emarginazione dell’essere diverso, di vivere all’interno di un mondo con il quale non riesce ad interagire, anche la sofferenza per essere vittime di atti di bullismo da parte dei compagni. Come se, per il fatto di essere diversi, il protagonista si debba meritare la ridicolarizzazione dei soggetti normali, per creare una divisione ancora più netta tra il sano e il malato. Cosa che però verso la fine del film viene ribaltata grazie all’intelligenza strategica di Ben. Si ritorna quindi a enfatizzare la genialità di queste persone che salvano il mondo e in questo caso se stesse.
Riappare il concetto dell’autistico intelligente, geniale e capace con la produzione di Mick Jackson del 2010 “Temple Grandin – Una donna straordinaria”. Il film è un’autobiografia di una savant, una donna autistica dotata di straordinarie capacità e s’ispira appunto alla storia vera di Temple Grandin, una sessantenne americana, tenace attivista del movimento in tutela dei diritti degli animali e delle persone autistiche, con due lauree in Psicologia e in Zoologia e un master in Scienze Animali. La donna ha superato un’infanzia turbolenta, durante la quale le era stata diagnosticata la schizofrenia infantile, e un’adolescenza dura, fatta di incomprensioni, pregiudizi e rifiuti. Grazie all’aiuto della famiglia, a una singolare immaginazione e a una ostinata determinazione, la scienziata autistica è riuscita a scardinare il concetto dell’autismo come malattia debilitante e delimitante. È l’evoluzione faticosa di un personaggio che conquista una dignità che la società generalmente trascura di rispettare.
Manuela Cosenza